Il sogno e la realtà sono la stessa cosa

separata dal tempo

Individuo e folla

Nulla si crea che non sia prima stato sognato da un uomo

Dietro tutto quello che possiamo vedere, avvertire, toccare e sentire, dietro gli oggetti materiali e la realtà dell’economia, oltre i templi della finanza e le piramidi dell’industria, oltre i grattacieli delle multinazionali e l’intero business dell’esistenza, dietro ogni conquista della nostra civiltà, c’è sempre un uomo speciale e il suo sogno. Visibilia ex invisibilibus. Tutto ciò che appare concreto e solido, tutto ciò che possiamo vedere, avvertire, toccare e sentire, che suona pieno sotto i colpi del nostro bastone da ciechi che cerca di tastare le pareti del visibile, non è che la proiezione di un mondo invisibile ai nostri sensi, verticale ad esso e che ne costituisce la causa.

Ora, se due fenomeni sono legati da un rapporto di causalità, e l’uno è l’effetto dell’altro, dobbiamo accettare il fatto che la causa vive a un livello del reale più alto di quello dell’effetto.

Il sogno e la realtà sono la stessa cosa separata dal tempo. Per questo il sogno è la realtà…

Le idee straordinarie, le intuizioni audaci che hanno fatto progredire il nostro pianeta, e così le future soluzioni ai problemi vitali della specie, capaci di renderci più felici e più prosperi, non potrebbero esistere senza un individuo con la responsabilità per captarle e crederci, con la forza per sostenerne la potenza e per realizzarle, anche a rischio della propria vita.

Siamo perciò di fronte ad una scoperta semplice e rivoluzionaria: la causa, la fonte di ogni progresso civile, scientifico, economico, è sempre e soltanto l’individuo e tutto origina dall’impalpabilità del suo “sogno”.

Il fenomeno è così costante e la sua osservazione così rigorosa e scientificamente esatta da poterlo inquadrare tra i fenomeni naturali, governato da leggi ineluttabili, incontrovertibili come quelle della gravità, dell’attrito e dell’entropia o la seconda legge della termodinamica.

Il “sogno” è un tuffo nel miracoloso. Noi siamo arrivati fin qui perché ci sono stati grandi tuffatori prima di noi, sognatori, utopisti pragmatici, pazzi luminosi, uomini visionari, che hanno lasciato il mondo ansante alle loro spalle per l’incapacità di stargli dietro. Se la nostra civiltà non avesse questi uomini speciali, capaci di tuffarsi nell’invisibile, di credere nel miracoloso, di concepire l’impossibile, di sognare l’irrealizzabile, con la certezza assoluta che diventerà realtà, che il tempo gli darà ragione, noi saremmo ancora agli albori della coscienza.

Solo l’individuo è creativo e solo ad individui dobbiamo il nostro progresso materiale e morale ed il patrimonio di arte, di valori e di idee grandi e nobili di cui ancora si nutre la nostra civiltà.

La ragione è che non esistono sogni di massa. La massa può avere visioni negative del futuro, distopie o incubi, ma mai sogni. Soltanto l’individuo può sognare.

Dal taglio del canale di Suez alla scissione dell’atomo, dalla scoperta dell’America ai voli spaziali, dietro ogni sogno dell’umanità diventato realtà c’è sempre un uomo e uno solo.

Agli individui dobbiamo dunque tutto quello che siamo e che abbiamo; eppure li abbiamo perseguitati, quasi senza eccezioni. Là dove nasce un individuo immediatamente si mette in moto una forza antagonista, una massa pronta ad eliminarlo. E questo giuoco mortale a guardie e ladri tra individuo e massa, iniziato nella notte dei tempi, ancora continua. La nascita di Gesù e l’eccidio degli innocenti è sollevabile a paradigma scientifico universale.

La massa è antagonista dell’individuo. Lo è sempre stata, senza eccezioni,

sotto ogni latitudine ed in ogni tempo.

L’individuo è vivo, la massa è antibiotica. E la lotta tra individuo e massa, la persecuzione dell’individualità, è una costante della nostra storia. Abbiamo bisogno dell’individuo, e allo stesso tempo, come specie, abbiamo un insopprimibile istinto di sopprimerlo. Questo è il paradosso della nostra civiltà, il meno esplorato, il più oscuro, perché ha le sue radici nella parte più profonda del nostro essere, là dove ancora echeggia l’ululato di un predatore notturno, l’eco di una nostalgia animale.

L’individuo ci spaventa, la vastità delle sue idee, la sua fiducia incrollabile in se stesso, l’ampiezza della sua visione, la sua compattezza interiore, la sua luminosità, ci mettono in una condizione di dolorosità insopportabile e di fronte a un sinallagma vertiginoso. Nel Contratto Sociale di Rousseau sono riportate queste parole di Caligola ai suoi cortigiani: o voi siete uomini, e quindi io sono una divinità. O io sono un uomo, e voi bestie.

Soltanto incontrarne uno, o ascoltarne la voce, o vederlo agire, ci mette di fronte alla nostra pigrizia, alla nostra bruttezza, alla nostra insopportabile deformità. Lo sforzo richiesto per cambiare è troppo grande. Preferiamo eliminare il termine di confronto. Un colpo di martello al grillo parlante, la soppressione di questa voce che instancabilmente ci spinge ad essere di più, a diventare migliori, appare ogni volta la soluzione più semplice.

Nell’isola di Efeso, quasi tremila anni fa, si fece un esperimento sociale ed uno dei primi tentativi registrati storicamente di eliminare l’individuo una volta e per tutte. Secondo Eraclito “gli abitanti di Efeso hanno scacciato Ermodoro, il migliore di loro, dicendo: non vogliamo avere nessuno che sia migliore tra noi; se c’è qualcuno che lo è, se ne vada altrove, tra gli altri”.

Non era chiaro allora, e tantomeno lo è oggi, che la storia è dialettica e che l’agonismo tra individuo e massa è creativo ed insopprimibile. La soppressione dell’antagonista, qualora riuscisse, si riverberebbe in una crisi tanto più ardua quanto più è imponderabile il vuoto che si spalanca davanti al vincitore.

Ad uno sguardo più ampio, massa ed individuo formano una sola realtà, sono i due pistoni dello stesso motore. L’una non potrebbe esistere senza l’altro, così come non è immaginabile un bastone che abbia una sola estremità. Essi sono aspetti inseparabili di un’unica realtà.

Individuo deriva da indivisibile. Indica un uomo che ha raggiunto una compattezza interiore, un grado elevato di affidabilità, di incorruttibilità, di amore; che è riuscito a far convergere verso una sola direzione tutto quello che sente, che fa, che dice, che pensa. L’uomo di massa, che potremmo a questo punto chiamare “dividuo”, è invece una legione, diviso tra mille ‘io’ in lotta perenne tra loro, lacerato da pensieri ed emozioni contrastanti, diviso da se stesso e dagli altri, senza lealtà, senza idee, senza amore.

E’ la visione di un società di massa non fatta di eguali ma resa piatta attraverso la soppressione della gerarchia che naturalmente esiste e mette gli uomini ai diversi pioli di una scala della responsabilità, la scala di Giacobbe.

Nella tradizione giudaico-cristiana il peccato originale è la divisione da Dio, la prima e più insanabile delle divisioni. L’individuo sembra essere senza questo peccato originale. E proprio la capacità di amare appare come il più chiaro spartiacque tra gli uomini e il confine più netto tra queste due porzioni di umanità: gli individui e la massa.

Se proviamo a rovesciare i termini di quella straordinaria equazione interiore: “ama il prossimo tuo come te stesso”, essa mostra tutta la sua genialità e l’inarrivabile conoscenza dell’animo umano in essa racchiusa.

Amare se stesso è la misura ed il limite della capacità di amare gli altri.

Questa è ancora oggi la visione più alta e la formula più potente per l’armonizzazione dell’eterno antagonismo tra individuo e massa.

L’individuo può amare la massa attraverso l’amore per se stesso

e la comprensione che il prossimo suo è se stesso.